mercoledì 14 novembre 2012

Zygmunt Bauman


Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto. (il Mulino)

Questo è il famoso libro in cui Zygmunt Bauman sostiene e dimostra che gli Ebrei aiutarono attivamente ed efficacemente i Tedeschi nel corso di tutte le procedure che messe insieme condussero allo sviluppo dell’Olocausto.
Sostiene e dimostra, nel senso in cui si possono considerare dimostrazioni quelle che possiamo ottenere dallo studio della Storia, cioè dall’esame di documenti e testimonianze e, quando i fatti sono accaduti da poco, dall’ascolto dei ricordi delle persone che vi hanno partecipato.
Questa è una parte molto rilevante del libro ma non ne è, come indica chiaramente il titolo, la vera sostanza.
La vera sostanza del libro è il discorso di Zygmunt Bauman sulla Modernità. Che comincia con il sospetto che Auschwitz non sia stato che un’estensione del moderno sistema di fabbrica.
Bauman indica, sulla scorta del lavoro fatto da Raul Hilberg con La distruzione degli ebrei d’Europa, la gradualità del processo dell’Olocausto, che si può tra l’altro vedere benissimo in quello che secondo me è il capolavoro di Steven Spielberg, Schindler’s List, e collega questa gradualità e la mentalità che la sosteneva allo sviluppo dell’antisemitismo a partire dalla nascita delle idee moderne di razionalità ed uguaglianza generate dell’Illuminismo, che portarono gli Ebrei d’Europa a lasciare la propria condizione di isolamento e di separazione (vedi anche Niall Ferguson, Ascesa e declino del denaro), ad uscire dai ghetti, a vestirsi come gli altri, a partecipare alla vita civile delle nazioni, per cui si generò un nuovo concetto di Ebreo come individuo infiltrato nella società, che venne odiato per tutto e per il contrario di tutto, nel quadro di un antisemitismo che si costruì come radicalmente diverso da ogni altra forma di razzismo, in quanto si adattava a tutte le particolari problematiche locali, proprio per il suo non essere collegato a nessuna specifica problematica di esclusione.
Gli Ebrei divennero quindi anche un simbolo dello sconvolgimento sociale e, essendo stati tenuti per secoli relegati a professioni specifiche di tipo intermediario e non produttivo, per esempio erano esclusi dalla proprietà terriera, si trovarono ad essere assimilati al nuovo potere del denaro e all’idea del capitalismo, odiati e disprezzati anche dai socialisti.
Gli Ebrei costituivano, non più separati e distinti materialmente dal resto della popolazione, proprio per il loro essersi mischiati ai cittadini qualsiasi, uno stato dentro lo stato, e questo nel momento della nascita e dell’organizzazione, soprattutto nell’Europa dell’est, degli stati nazionali.
Diventa quindi necessario identificarli e tenerli separati e per questo la religione, che si può cambiare in qualsiasi momento, non basta. Ci vuole qualcosa di più profondo e immutabile, sul piano più fondamentale dell’essere quel che si è.
Quello che ha fatto il nazismo è stato unire il razzismo e l’antisemitismo con il concetto, anche questo prettamente illuministico, della pratica di una possibilità di miglioramento infinito della società, attraverso la scienza, l’ingegneria sociale e un perfezionamento di tipo medico, che voleva ripulire il mondo dagli agenti patogeni e dagli elementi infestanti. Il concetto cioè del giardinaggio sociale, meravigliosamente metaforizzato in quella porcheria (sic) prenazista che è Le affinità elettive, che non a caso comincia con quel trombone di Edoardo che aveva trascorso l’ora più bella del pomeriggio occupandosi delle piantine del suo vivaio, e poi va avanti sempre con il giardinaggio e nel capitolo VII non manca di dirci che gli uomini dovrebbero portare sin da giovani l’uniforme, per abituarsi ad agire insieme, a confondersi tra i loro simili, a obbedire in massa e a lavorare collettivamente, e che qualsiasi uniforme favorisce sia il senso militare, sia un contegno modesto e risoluto, senza contare che tutti i ragazzi nascono già soldati.
Tenendo presente che qui non si tratta di quel tipo di razzismo ovunque presente che tende ad escludere il diverso in quanto minaccia, ma di un vero e proprio anelito alla perfezione sotto il dominio della razionalità, di quella tensione dell’Illuminismo al conseguimento di un ordine razionale, attraverso la manipolazione della natura, che tra l’altro dopo tutti i danni che ha fatto, è ancora ben lontano dal fermarsi.
E infatti come ha mostrato Raul Hilberg, i Tedeschi cominciarono con l’eliminazione dei malati, e da qui si passò all’eliminazione degli Ebrei.
Il discorso di Bauman è comunque ben più complesso, sia nel confrontare la scientificità dell’Olocausto con le espressioni di antisemitismo dei pogrom, sia nel mostrare come questo sia stato possibile anche e soprattutto perché sugli Ebrei in quanto criminali non si aveva un’esperienza diretta, necessaria per l’odio e la violenza personale, ma un’esperienza culturale. Cioè si potrebbe dire che si erano trovati in una posizione che René Girard, vedi Menzogna romantica e verità romanzesca, definirebbe di mediatori universali.
Quel che secondo me è ben più importante è come Bauman vede nell’Olocausto non un bubbone o un errore nel tessuto della modernità cioè del mondo attuale ma come un fatto ad esso connaturato, un’espressione della divisione del lavoro e della moderna organizzazione burocratica, che assegna a ciascuno una parte del lavoro producendo una condizione di sostanziale distanza tra ogni singolo atto di partecipazione al risultato finale, e il risultato finale stesso, nel complesso di una organizzazione in cui ognuno è responsabile della propria parte di lavoro, e nessuno è responsabile della totalità, con la responsabilità tecnica che prende il posto della responsabilità morale, vedi la presenza costante, nei mezzi di comunicazione, di ogni genere di cosiddetti esperti.
Così che nel tecnicismo e nello specialismo generalizzati, ogni individuo è spinto a considerare gli altri solo in quanto oggetto di un comportamento efficiente, in cui contano le scelte razionali o irrazionali e ciò che è giusto e ciò che è sbagliato si valutano in termini di razionalità ed efficienza e non in termini di moralità o immoralità. Cioè, in un universo dominato dal denaro, quel che conta è se una cosa rende o non rende, e non se è moralmente giusta o sbagliata, vedi discorsi attuali sull’economia.
Fu proprio questa valutazione della propria condizione in termini di efficienza o di utilitarismo, pur se in un contesto in cui le reali possibilità di scelta erano praticamente inesistenti, che secondo Bauman portò gli Ebrei a collaborare con i Tedeschi, di volta in volta pensando di mettere in atto condotte razionali, nel tentativo di salvare un numero elevato di vite sacrificandone poche.
La fine delle responsabilità morali comincia con un altro dei cosiddetti valori dell’Illuminismo, cioè l’indipendenza della scienza.
Per Zygmunt Bauman nel discorso della scienza sul mondo è indispensabile l’assenza di un vocabolario teleologico, cioè che ogni cosa venga valutata indipendentemente dai suoi fini.
A questo punto Bauman mette insieme tutto, e ci mostra un mondo in cui il complesso costituito dalla scienza e dall’organizzazione burocratica dell’alienazione e della divisione del lavoro ha portato ad una distanza sempre più marcata tra il comportamento di ogni individuo e gli effetti di questo comportamento sugli altri, citando anche i famosi esperimenti di Stanley Milgram e di Philip Zimbardo, e apre un discorso sulla responsabilità morale che si richiama a  Jean-Paul Sartre e a Emmanuel Lévinas. Ma se a proposito di Lévinas si può far notare che René Girard in La violenza e il Sacro vede la faccenda in termini decisamente diversi, e possiamo supporre, se si vuol fare riferimento a una struttura primaria e fondamentale della soggettività, che anche le popolazioni native dell’area che comprende la parte orientale degli Stati Uniti e la parte meridionale del Québec e dell’Ontario e che praticavano la tortura rituale probabilmente non consideravano il volto nello stesso modo di Lévinas, nel complesso mi sembra che si possa rilevare che il discorso di Bauman sulla frammentazione delle competenze e sulla assenza della teleologia nel discorso della scienza e su quella che egli definisce produzione sociale della distanza possa essere collegato al discorso di Marshall McLuhan in La galassia Gutenberg sugli effetti della tipografia e al discorso di Harold Innis in Empire and Communications sulle società che danno maggiore importanza allo spazio o al tempo.
Cioè il capitalismo e la divisione del lavoro nascono con la tipografia, che pone in primo piano lo spazio, e da quando comincia la simultaneità dell’Epoca Elettrica il sempre più vistoso annullamento dello spazio ha portato ad una condizione di confusione generale tra i parametri di spazio e di tempo, confusione che nella Germania nazista, che si riprometteva di durare millenni e durò la bellezza (sic) di dodici anni, ha trovato un momento di espressione particolarmente drammatica. E forse proprio in questa confusione possiamo vedere i motivi di fondo che portarono alla sua completa sconfitta. Cioè i Tedeschi, ancora con riferimento a Marshall McLuhan in La galassia Gutenberg, avevano un’ideologia ancora sostanzialmente tribale che poneva un’enfasi massima sul tempo, e una pratica che poneva un’enfasi massima sullo spazio, vedi sempre Harold Innis.
Su questa cosa di un possibile tribalismo tedesco e del rapporto con il tempo delle ideologie, può valere la pena di notare che un’altra ideologia che dava la massima importanza al tempo fu il marxismo, che come il nazismo voleva sostanzialmente costruire uno stato sociale, tanto che in fondo le richieste del Manifesto del Partito Comunista non sono essenzialmente altro che proposte di costruzione di stato sociale, e queste due visioni del mondo in un certo senso si opponevano entrambe alla spazializzazione della realtà operata dalla tipografia e dal capitalismo, proiettando nel tempo il miglioramento della vita dell’umanità, anche se nel caso della Germania nazista il miglioramento riguardava solo i Tedeschi. Cosa che potrebbe spiegare come mai le due Rivoluzioni riuscite, in Russia e in Cina, si verificarono, diversamente dalle previsioni di Karl Marx, in due paesi arretratissimi per non dire feudali, con una visione del mondo ancora pretipografica e legata essenzialmente ai parametri di tempo.
Chiudo con due osservazioni.
La prima è che forse vale la pena di ripetere che Zygmunt Bauman vede nell’Olocausto non un bubbone o un errore nel tessuto della modernità cioè del mondo attuale ma un fatto ad esso connaturato, e riflettere che nessuno si riteneva responsabile dell’Olocausto in quanto si era limitato a fare la sua parte pur senza, come si disse un sacco di volte al processo di Norimberga, odiare gli Ebrei, e certamente i lavoratori della Ferrero non si ritengono responsabili della sempre più vasta diffusione del diabete anche tra i bambini, così come probabilmente si sentono del tutto innocenti quelli che lavorano, a qualsiasi livello, per le campagne pubblicitarie del Mulino Bianco.
La seconda è che Hitler, con tutte le formidabili cose che aveva detto anche prima della guerra, non abbandonò mai la Chiesa Cattolica, né fu mai scomunicato. (bamborino)

A pag. 15 secondo me manca una virgola, a pag. 97 c’è malvage invece di malvagie, a pag. 159 c’è un pasticcio tra singolari e plurali, ma a pag. 26 e a pag. 30 si può solo ringraziare per due esaurientemente invece dello schifoso dilagante esaustivamente.




Gli occhi e le orecchie si chiudono quando sono in gioco la sanità e l’integrità dell’universo personale. (René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca)

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