sabato 23 marzo 2013

Robert Dessaix


Robert Dessaix, Lettere di notte. (Fazi)

Trovare questo libro è stata una grandissima botta di culo.
Un giorno di qualche anno fa sono andato a Parma, bellissima per quel poco che ne ho visto io, fuori dalla stazione ho camminato diritto fino all’università, e poco dopo le otto passavo per queste strade silenziose a un’ora che a Milano si è già nel casino più orribile, e qui solo biciclette nella mattinata umida, la bellezza di tutto violata solo da una Volkswagen Touareg che scintillava tutta nera e grossa, stupida come solo un SUV può essere stupido, ancora più stupida in quelle strade quasi vuote e in mezzo a quelle case così basse. Poi mi sono trovato lì di colpo un edificio incredibile che si chiama il Pilotto, tutto di mattoni, grandissimo, stranamente articolato nei corpi di fabbrica diversi e complicati, con un androne di profondità mai viste, una cosa da romanzo fantasy, m’è venuto in mente Tito di Gormenghast.
E bellissima anche l’università, l’atrio antico come uno se lo aspetta, una camminata lunghissima in un corridoio bellissimo con sgabelli di pietra ricavati dentro nicchie nelle pareti, il soffitto altissimo, quella mezza luce che obbliga a silenzi timidi e rispettosi.
E poi l’aula magna, piccola, con file di poltrone di legno unite a gruppi di tre, non la solita aula magna che sembra un teatro, e qui sul soffitto affreschi con personaggi forse religiosi che si sporgono giù a guardarti, e poco sotto il soffitto quattro nicchie trompe l’oeuil, con dentro sedute Litterae, Iurisprudentia, Scientiae e Medicina. Pitture semplici e abbastanza ingenue, Iurisprudentia col torace largo e una tonaca azzurra sotto la quale spingeva in avanti due tettine piccole e svettanti, e Medicina vestita come un’infermiera (ma quella di Parma è la grande Medicina di Giacomo Rizzolatti e della scoperta dei neuroni specchio).
Mi sono seduto e mi sono messo a leggere, poco dopo è entrato uno con il blutùt attaccato all’orecchio, poi è arrivato l’Affascinante che parlava con le signore tenendo sempre una mano infilata in tasca attraverso uno degli spacchi della giacca e un sorriso colossale che non gli si muoveva dalla faccia. L’evento formativo è cominciato, come sempre (sempre nel senso che questa cosa in questi eventi c’è sempre assolutamente sempre) il prof. Tale ha detto che era contento di avere lì il prof. Talaltro per i suoi grandi meriti scientifici ma anche e soprattutto perché era un vecchio amico, si sono dette delle cose interessanti anche se la cosa più importante di cui si poteva parlare non è stata nemmeno menzionata, a metà dell’evento s’è mangiato un po’, e alla fine l’evento formativo è finito.
Fuori dall’università al treno mancava più di un’ora, e mi sono guardato ancora questa Parma bellissima e adesso piovigginante, con tante case belle e il suo fiume quasi in secca che lasciava vedere quello che praticamente era un bellissimo prato verde, incredibile per me abituato alle secche di spazzatura dei Navigli. Di nuovo, era l’ora di punta ma traffico ce n’era ben poco, e c’erano tante biciclette, in giro e ferme e legate, vicino alla stazione mazzi di decine di biciclette sui marciapiedi, e vicino alla stazione c’era il fatidico tendone bianco con sotto i fatidici banconi dei libri a metà prezzo.
Dessaix l’ho trovato qui. L’ho visto e ho pensato, un libro di un francese, poi l’ho girato, e sulla quarta di copertina c’era scritto che secondo «Vogue Australia» era un capolavoro, e allora mi sono detto questo è un fatto straordinario, che «Vogue Australia» si occupi di un libro di un francese, prendiamo e leggiamo. Dopo Dessaix ho comperato altri tre o quattro libri, poi mi sono seduto nella sala d’attesa della stazione ad aspettare l’ora del mio treno. Sala d’attesa che avrei ritrovato, nel libro, perché quando Dessaix parla della sala d’attesa della stazione di Vicenza io mi sono immaginato la stazione di Parma. Come di volta in volta lungo il libro mi sono visto su tutti i treni della mia vita.
Robert Dessaix è un australiano, e Lettere di notte è la storia del viaggio di un omosessuale australiano che ha appena saputo di avere l’AIDS o di essere sieropositivo, non si capisce. Meraviglioso viaggio in Svizzera e in Italia, raccontato in prima persona attraverso venti lettere scritte in un albergo a Venezia.
Venezia è la base da cui il narratore riparte tutte le notti per riprendere il filo dei suoi spostamenti, e ogni lettera si sposta da Venezia all’Australia ai luoghi del viaggio, in una sovrapposizione continua di piani narrativi diversi, che si susseguono ed entrano uno nell’altro, attraversano posti e storie, entrano ed escono da quadri e da altri libri, soprattutto la Divina Commedia. Mentre il narratore racconta la sua storia, altri gli raccontano le loro e gli raccontano altre storie, e il viaggio non si ferma mai, Dessaix attraversa il tempo e attraversa lo spazio, da Locarno a Milano a Bologna a Vicenza a Padova e poi a Venezia, dal medioevo a oggi all’altroieri, tutto insieme e tutto precisamente definito nei suoi colori nelle sue luci e nelle sue voci. Ci sono momenti bellissimi, come la notte a Vicenza che poi nella lettera successiva si apre come uno sparo sulla mattinata che la segue, c’è la descrizione bellissima e purtroppo vera di quello che si vede e di quello che si prova quando si passa in treno dalla Svizzera all’Italia. C’è il confronto tra i viaggi di Marco Polo e i viaggi di Casanova, riflessione sul vivere e sull’andare del corpo e dello spirito. 
Il narratore dice più di una volta la sua sorpresa, adesso che sta aspettando di morire, nel rendersi conto che la gente che gli sta intorno “pensa di andare da qualche parte”, e il suo viaggio è un po’ questo, un non andare più da nessuna parte pur in questo movimento continuo esteriore che diventa interiore, un flusso di fatti e di luoghi che è anche un flusso di coscienza, nella consapevolezza della scoperta che è sempre stato così, che non è mai andato da nessuna parte anche quando credeva di spostarsi lungo la strada di un’esistenza che era solo insensata fragilità. E il libro si chiude con due righe sull’esultanza, l’esultanza di aver capito adesso cos’è vivere, adesso che la vita ha trovato il suo senso in un rapporto sereno con la morte.
Ho cominciato a leggere la sera che sono tornato da Parma, per la curiosità della quarta di copertina e, vita pratica a parte, ho smesso di leggere quando il libro è finito, sempre con la voglia di tornare nel piccolo viaggio di Dessaix, sui suoi treni, nelle sue storie. 
Rimane da aggiungere che quando il narratore dice al suo compagno che è ammalato, l’episodio viene raccontato prima che glielo dice in macchina uscendo dallo studio del medico, e più avanti che glielo dice incontrandolo quando torna a casa dopo la visita. Forse sono io che non ho capito niente, ma mi sembra strana una simile incongruenza in uno scrittore così stilisticamente attento, e preferisco pensare a una simulata svista stendhaliana. Poi c’è un bellissimo e raro “famigliare” messo al posto giusto, riferito alla famiglia vera e propria, con la sua bella g, ma quando arriviamo a Bologna si parla di “arcate”. In inglese portico si dice arcade, e probabilmente le arcate vengono da lì, ma nessuno dice che Bologna è piena di arcate, in italiano si chiamano portici. E poi c’è anche il fatto della pizza, definita come “farina e acqua condita con della salsa”, e subito dopo “Domani sera andrò al ristorante cinese e mangerò come si deve”. A me la pizza piace da matti, compresa la pizza al trancio che nell’impasto ha anche l’olio, e il ristorante cinese se posso lo evito, perché mi rimane sempre tutto sullo stomaco, e a leggere questa cosa mi sono incazzato proprio tanto, e ho pensato che gli involtini primavera e il maiale in agrodolce, il narratore se li poteva anche infilare gioiosamente su per dove gli pareva, melamina compresa. Senza che questo e qualche altro piccolo isterismo abbiano diminuito il piacere del libro di viaggi trovato in viaggio. (blifil)




...e la poesia è certo una crisi, forse l’unica crisi che possiamo mettere in moto con i nostri propri mezzi. (J.D. Salinger,  Seymour. Introduzione)

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