mercoledì 24 aprile 2013

Gottfried Keller


Gottfried Keller, Enrico il Verde. (Einaudi)

Importante opera con cui il popolo degli orologi e delle banche ha dato il suo contributo al grande romanzo dell’Ottocento, questo celebre capolavoro della narrativa svizzero-tedesca è stato una delle peggiori fregature della mia vita.
Perché lo prendi, sai che è un libro importante, e cominci a leggerlo ben disposta. Così ti trovi con gli occhi che scorrono su una prima pagina che dire che è di una bellezza travolgente è dire poco, sei lì meravigliata e trasportata e ti viene in mente la prima pagina di Moby Dick e vai avanti e c’è sempre questa prosa che scorre via liquida, con un ritmo dolce e veloce che non si interrompe mai.
Una pagina, dieci pagine, venti, trenta, cento pagine. Duecento pagine. Una più bella dell’altra.
Sono crollata a pag. 252. Se per arrivare alla fine ne fossero mancate una cinquantina forse ce l’avrei fatta, ma ne mancavano quattrocentoquarantuno e, una pagina di bellezza dopo l’altra, a me di quello che faceva questo Enrico me ne fregava sempre di meno.
Bello e palloso, grandissimamente bello e orribilissimamente palloso, Enrico bambino e la mamma, Enrico e i suoi giochi scientifici, Enrico che cresce e s’innamora, Enrico che scambia saluti teneri e festosi in giardini profumati di rose e garofani, Enrico che cammina su alture assolate e per prati verdeggianti come verdeggiano sempre i prati tedeschi, da Goethe a Hesse, mentre una dolce brezza primaverile muove i capelli della fanciulla amata, Enrico che diventa un uomo, il Bildungsroman che rottura, però volendo si potrebbe anche pensare che il Bildungsroman in qualche modo è il padre della semplificazione strutturale del romanzo del Novecento. Se poi come questo vuol essere anche un romanzo educativo, be’, sono andata a guardare l’introduzione, ho visto che il caro Enrico abbandona le sue velleità romantiche di artista individualista e decide di tornare a vivere in seno alla collettività sana e operosa, e di darsi all’impegno civile, ho chiuso il libro e sono tornata anch’io nel mio mondo, dove non verdeggia niente e l’aria inquinata mi si impasta nei capelli ma insomma, oramai mi sono abituata così. (moll)




Lasciare una casa per un’altra, è triste come se avessero ucciso qualcuno. (Agota Kristof, La casa)

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