lunedì 27 maggio 2013

C. K. Ogden & I. A. Richards


Charles Kay Ogden & Ivor Armstrong Richards, The Meaning of Meaning. (Harcourt Brace Jovanovich)

Pubblicato in italiano da Garzanti negli anni Sessanta del secolo scorso, Il significato del significato è purtroppo attualmente più o meno introvabile. Quest'opera del 1923, che Umberto Eco considera seminale per la linguistica, la filosofia del linguaggio e la semiotica è una meravigliosa avventura nelle terre incessantemente percorse ma in gran parte ancora inesplorate della nostra abitudine quotidiana al linguaggio, attraverso lo studio di quello che Ogden e Richards chiamano simbolismo, cioè lo studio di come intervengano nelle faccende umane i simboli di ogni tipo, e particolarmente di come essi influenzino il pensiero, in quanto governano e organizzano, registrano e comunicano. E s'intende che i simboli fondamentali che noi utilizziamo tutti i giorni sono le parole. Cioè una parola per conto suo non vuol dir nulla, ma ha un significato in quanto simbolo di qualcosa.
Se è vero come dice Humberto Maturana in Autocoscienza e realtà, che noi in quanto esseri umani esistiamo nel linguaggio, non c'è nulla che più del linguaggio si riferisca alla nostra esistenza, e credo di poter dire che The Meaning of Meaning è un testo di linguistica esistenziale, che ci espone il parlare e lo scrivere a vanvera di tutti i giorni, ci mostra i trucchi e gli errori dei tormenti e delle delizie che ci vedono dalla mattina alla sera esibirci come vittime e come carnefici nell’uso della parola.
E già di questo inizio di post, Ogden e Richards direbbero che è vergognosamente infarcito di metafore approssimative, e io risponderei che lo so benissimo, ma sto facendo un uso volutamente emotivo e non simbolico-referenziale del linguaggio.
Entusiasmo.
Non ho un’altra parola per dare l’idea dell’effetto che mi ha fatto questo libro mentre lo leggevo, e dell’effetto che mi ha fatto in seguito, quando mi sono trovato a constatare l’utilità che può avere per comprendere meglio quello che ci succede intorno e quello che ci troviamo a pensare, e come lo pensiamo.
Faccio un esempio.
Dal discorso generale di Ogden e Richards deriva quanto è scritto a proposito della medicina nel Supplement II, The Importance of a Theory of Signs and a Critique of Language in the study of Medicine da F. G. Crookshank, che mi rendo conto benissimo che è roba che dal punto di vista scientifico può essere considerata piuttosto obsoleta, ma la riflessione sulle malattie che si può fare a partire dal testo di Ogden e Richards non è per questo meno valida. Anzi, sta diventando sempre più valida.
Cioè accade regolarmente che si faccia come le popolazioni primitive e i bambini. Per esempio i bambini sanno che se gridano mamma, la mamma magicamente farà la sua comparsa, e da qui nasce l’attribuzione di poteri magici alle parole, parole che per i primitivi sono in grado di intervenire sul mondo come realtà vere e proprie e dotate di vita propria. Da ciò consegue, attraverso un lavoro che comincia con Platone (vedi il suo Parmenide per un esempio) e continua con Aristotele e non si è mai fermato, la credenza del nostro mondo moderno, che le parole siano entità indipendenti da ciò che designano, e soprattutto che se esiste una parola, e la parola come si è detto è secondo Ogden e Richards un simbolo di qualcosa, se esiste una parola noi siamo regolarmente certissimi che necessariamente esista anche la cosa designata dalla parola in questione, come si può vedere con semplicità da un esame anche superficiale del significato, peraltro variabile nel tempo, delle diagnosi psichiatriche.
E il Supplement I, The Problem of Meaning in Primitive Languages, del grande antropologo Bronisław Malinowski, mette bene in evidenza la storia e la natura del significato nei linguaggi primitivi, ma se è vero che credere che dall'esistenza di una parola discenda ineluttabilmente l'esistenza della cosa designata da questa parola è un pensiero da selvaggi, il fatto è che per i selvaggi, che come dice Malinowski, vivono in un mondo caratterizzato essenzialmente dall'azione, il linguaggio è una parte ineludibile dell'azione, e l'esistenza della parola staccata dal suo significato non è nemmeno pensabile, proprio perché prima della scrittura il linguaggio serviva solo nel contesto dell'azione e niente affatto per la comunicazione di idee.
Tutto questo in realtà comincia con la scrittura, e si sviluppa completamente con le prime scritture consonantiche che permettevano, a differenza dei sistemi di scrittura ideografici o misti, la perdita di qualunque rapporto tra il simbolo e ciò per cui il simbolo stava, cioè tra l'ideogramma e il suo significato. Ciò procedeva necessariamente dal fatto che la tecnologia della scrittura alfabetica, già nei suoi primi aspetti di sistema consonantico, era stata inventata per rendere più semplici e precise le notazioni economiche di un popolo di mercanti, i Fenici, e questa necessità di notazione comportavano un ineluttabile processo di astrazione (vedi Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura), che esplode completamente con la scrittura fonetica a vocali indipendenti dei Greci, che secondo Derrick de Kerckhove (citato da Walter Ong in Oralità e scrittura) porta all'origine della filosofia analitica.
Quindi secondo me i problemi di significato riscontrabili nella nostra epoca non derivano tanto direttamente dal residuo di attribuzioni di poteri magici alle parola, quanto dal distacco diretto della parola dal significato. La parola ha perso contatto con ciò che rappresenta, non è più come dice Walter Ong un evento ma nello scritto si ferma in un'esistenza concretamente visibile e indipendente dall'azione degli uomini che la pronunciano, e diventa essa stessa un generatore di significato, e con i significati genera idee.
Così il potere magico della parola quale era per i primitivi è sì rimasto, ma con un cambiamento, perché in realtà non solo è rimasto, ma si è rinforzato e amplificato a dismisura, in quanto le parole che per i primitivi e per i bambini hanno il potere di ottenere la comparsa degli oggetti ai quali si riferiscono, per i moderni raggiungono addirittura il potere di generare la comparsa di oggetti del tutto inesistenti, come i concetti e le Forme di Platone (vedi ancora Parmenide). E dice bene Malinowski che le parole per i primitivi non servono a comunicare idee, perché prima della scrittura quello che noi intendiamo per idee, semplicemente non esisteva.
Uno degli esempi più efferati di questo potere della parola di creare concetti inesistenti è dato dalle materie, intendendo con questo termine ciò che può essere oggetto di studio e di insegnamento e su cui si possono sostenere esami. Fino a non molto tempo fa c'erano solo le sette materie del Trivio e del Quadrivio, oggi ce ne sono centinaia, l'ultima che ho sentito è la Psiconcologia, e più o meno con questo discorso siamo nello stesso ambito generativo di concetti immaginari al quale ho fatto cenno per le diagnosi in psichiatria.
Insomma, Ogden e Richards mostrano il potere del linguaggio e lo strapotere del suo cattivo uso in tutti i modi possibili, con infinite avvertenze sugli infiniti imbrogli messi in atto quotidianamente e più o meno consapevolmente e più o meno da tutti, e infinite avvertenze sulle difficoltà che quotidianamente incontriamo nel nostro rapporto con le parole.
Dalla necessità di valutare il rapporto tra i contesti psicologici e i contesti fattuali esterni, alle osservazioni sulla complessità con cui elaboriamo anche i concetti, o i simboli, che ci sembrano più banali e che utilizziamo in continuazione.
Per esempio il concetto di parente. I parenti, essi fanno giustamente osservare, non esistono, ma esistono genitori, zii, cognati, fratelli, sorelle, cugini, nipoti, e questo è un esempio di simbolo di un pensiero, o riferimento (reference) che noi ci costruiamo attraverso relazioni esistenziali complesse e utilizzando, per costruire la nostra comprensione del significato di una parola, un insieme molto complesso di esperienze e di riferimenti ad altri simboli. Oltretutto, per quanto riguarda la complessità di questo concetto, alle osservazioni di Ogden e Richards si possono aggiungere le osservazioni di Claude Lévi-Strauss in Il pensiero selvaggio e gli studi di Louis Gernet in La famiglia nella Grecia antica, e si potrà comprendere anche meglio la rilevanza linguistica e la diversificazione culturale della parentela.   
Poi c'è il bellissimo (sic) capitolo sulla bellezza, con discussione approfondita dei sedici possibili significati del termine, più naturalmente il capitolo sul significato del termine significato, ancora sedici possibili significati, con sedici approfonditi approfondimenti.
E per far capire cosa intendo per linguistica esistenziale, cioè l'utilizzo della filosofia del linguaggio a scopo difensivo contro i continui attacchi al nostro cervello da parte dei mezzi di comunicazione, aggiungo che in The Meaning of Meaning c'è l'importantissima spiegazione di tre diffusissimi trabocchetti, in cui si viene molto facilmente attirati da stampa televisione e pubblicità, ma in cui si può cadere anche spontaneamente, cioè la Fallacia Fonetica, la Fallacia Ipostatica, la Fallacia Utraquistica, che oltretutto Ogden e Richards non considerano errori, ma chiamano apertamente Sotterfugi.
Si è già detto della Fallacia Ipostatica e della Fallacia Utraquistica a proposito di L'economia della truffa di John Kenneth Galbraith, e si è dato qualche esempio per Contro la bioetica di Jonathan Baron, ma può essere utile parlarne di nuovo.
Il più facile da smascherare è il sotterfugio ipostatico, cioè l'utilizzo di sostantivi astratti come se si trattasse di cose concrete. Che come dice Walter Ong in Ramus, Method and the Decay of Dialogue costituisce, per esempio all'interno del discorso scientifico, una modalità di semplificazione spesso utilissima, ma diventa un imbroglio in piena regola quando si manipolano concetti immaginari trattandoli come oggetti reali, vedi compagnie di assicurazioni che vendono serenità, vedi i padroni che darebbero lavoro quando invece di dare prendono a pagamento (spesso scarso) persone in carne e ossa, e vedi Daniel Kahneman che arriva addirittura a misurare le esperienze edoniche.
Le cose si fanno meno facili per lo smascheramento del sotterfugio utraquistico, che consiste nell'usare un identico termine contemporaneamente in due differenti accezioni di significato. Che secondo me è una cosa che si verifica molto spesso e in modo grave quanto generalizzato e con risultati disastrosi, in quel che viene detto e scritto sull'economia, quando faccende finanziarie vengono considerate faccende economiche come se fossero faccende pratiche produttive e/o commerciali, come si può vedere da La fine del lavoro di Jeremy Rifkin, e si operano interventi finanziari su fatti che finanziari non sono.
Ancora, e per chiarire meglio (spero) i risvolti pratici di questa roba, secondo me ci troviamo di fronte ad un sotterfugio utraquistico quando in un medesimo contesto si parla indifferentemente di profitti, intendendo con questo termine, che tra l'altro è un'ipostasi ma di quelle utili nel discorso scientifico, sia i profitti derivanti da un aumento di produzione e di vendite stile economia rampante, sia i profitti derivanti dal taglio più o meno surrettizio dei salari e dalla riduzione dei costi.
Un ottimo esempio di sotterfugio utraquistico di tipo filosofico lo si può poi trovare a questo link qui, e oltretutto in questo caso il furbastro utraquistico è Alfred North Whitehead.
Infine, benché secondo Ogden e Richards questo sia il più ovvio dei tre orrendi sotterfugi, il sotterfugio fonetico secondo me è il più difficile da smascherare, ed è quello che ci frega più spesso. Esso consiste nell'utilizzo di due parole di suono simile come se le loro diverse estensioni avessero lo stesso significato. Ogden e Richards fanno l'esempio di "visibile e "desiderabile". Se "desiderabile" può significare, tale da essere desiderato, può significare anche tale da poter essere desiderato in determinate circostanze (vedi supra la questione dei contesti), mentre "visibile" significa sempre, tale da  essere visto, e quindi si utilizza surrettiziamente l'aggettivo desiderabile come se fosse una caratteristica ineluttabile dell'oggetto in questione. E direi che il sotterfugio fonetico è comunque facilissimo, per dare l'idea di qualcosa di assolutamente ineluttabile, con tutte le parole che finiscono in -bile. Per fare un esempio pratico, toccare il sedere alle proprie colleghe sul luogo di lavoro senza la loro autorizzazione è legalmente perseguibile, e ciò lo è sempre e comunque, mentre se si dice che è intollerabile, ciò lo sarà in determinate circostanze e non in altre e per certe persone e non per altre.
Un ulteriore buon esempio dei casini generati dal sotterfugio fonetico, e dagli altri due sotterfugi, secondo me lo si può trovare nelle storie che riguardano Silvio Berlusconi. Ovvero si diceva che il suo comportamento (sotterfugio ipostatico) era inammissibile per un premier, parlando in questo caso come se fossero la stessa cosa (sotterfugio utraquistico) di un comportamento personale e di un comportamento politico, e parlando anche (di nuovo il sotterfugio utraquistico) di danni all'immagine della nazione e di danni all'economia, e l'inammissibilità non era dotata di un significato indiscutibile come ad esempio l'invisibilità, ma la somiglianza fonetica la faceva considerare tale, mentre poi si è visto, quando s'è trattato di votare, come stavano le cose.
Il massimo danno derivante dall'unione dei tre sotterfugi secondo me si verifica nell'ambito dei discorsi sulla sanità, che tra l'altro è una delle peggiori ipostasi moderne anche se può avere un suo senso nel discorso scientifico, Abbiamo un sotterfugio utraquistico quando si parla indifferentemente  di salute come condizione acquisita curandosi (che oltretutto salute non è) e come condizione di base di buon funzionamento dell'organismo, che oltretutto serve a sostenere l'imbroglio dei cosiddetti esiti surrogati di cui parla Ben Goldacre in Effetti collaterali, cioè non è affatto detto che una pressione bassa ottenuta farmacologicamente sia paragonabile, per quanto riguarda il rischio di disturbi cardiovascolari, a una pressione naturalmente bassa. Da qui il passo non è molto lungo per arrivare al sotterfugio fonetico per cui tutto diventa curabile, cioè sia che volendo può essere curato, sia che va molto opportunamente per non dire doverosamente curato, con generazione della prescrizione sociale della cosiddetta cura dei cosiddetti inestetismi, dal botulino alla chirurgia plastica.
L'ultimo delirio del Sistema, l'ultimo per modo di dire perché vedremo sicuramente di peggio, è di considerare malattia il gioco d'azzardo, dopo che sono stati messi dappertutto gratta e vinci, macchinette e sale da bingo. E questo delirio nasce dal definire come malattia tutto ciò che in qualche modo potrebbe essere curabile, saltando nel discorso indifferentemente dalle fratture al rachitismo al gioco d'azzardo, utilizzando un concetto di curabilità che viene definito in quanto tale non tanto dal fatto che la cura sia possibile, quanto dal fatto che esistano dei sedicenti mezzi di cura, di nuovo con una sapiente combinazione dei tre sotterfugi, l'ipostatico per la malattia, l'utraquistico per muovere agevolmente l'ipostasi, e infine il fonetico per inventare la cura. Del resto chi si rovina giocando d'azzardo lo fa perché vincere è possibile, ma la possibilità che si verifica in una partita di scacchi è radicalmente diversa da quella, foneticamente identica, di vincere al Superenalotto.
Insomma questo libro può essere veramente prezioso per aiutarci a capire un sacco di cose che, a lasciarle lì come stanno e a credere che siano oltretutto prodotti di un pensiero naturale, ci portano solo verso angosce sempre più profonde, e quindi invito tutti a stare ben attenti ai tre sotterfugi in tutti i mezzi di comunicazione e chiudo.
Si fa un po' di fatica, ma questa lettura è un viaggio che la sua fatica la vale tutta, e non ci si annoia mai.
Avevo parlato di entusiasmo, e come dice Umberto Eco nella sua Introduction, The Meaning of Meaning is pervaded by an abundant missionary fervor, and it is still exciting to read. (bamborino)




Parlare è incorrere in tautologie. (Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele)

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