giovedì 6 giugno 2013

Alan Sillitoe


Alan Sillitoe, Sabato sera, domenica mattina. (Einaudi)

Sono un dichiarato estimatore di Alan Sillitoe da quando, tanti anni fa, avevo letto La solitudine del maratoneta.
Su cui peraltro c’è da dire che il titolo è ben sbagliato, in italiano e in inglese, The loneliness of the long distance runner. Perché la corsa del racconto eponimo è una campestre di qualche chilometro come tutte le campestri tranne il campionato del mondo, che se non mi sbaglio sono 12 chilometri, e la long distance è dai 10000 metri in su, e la maratona sono 42 chilometri e 195 metri, quindi long distance runner e maratoneta, proprio un tubo.
Così qualche anno fa avevo trovato in un Libraccio questo romanzo, collana Nuovi Coralli, 1982, e La figlia del rigattiere, e quindi mi riferisco all’edizione Einaudi.
Sabato sera domenica mattina secondo me è un’opera grandiosa.
Innanzitutto è un libro perfetto per tutti gli imbecilli che vanno in giro a dire che questa è la prima volta dopo un secolo che la generazione dei padri non si prospetta un futuro migliore per la generazione dei figli.
Ma quando mai.
Per vedere come stavano queste cose negli anni Cinquanta basta leggere questo capolavoro, e altri due capolavori come Il sogno di una cosa di Pier Paolo Pasolini e Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori, perché i grandi scrittori l’hanno sempre saputa parecchio più lunga e l’hanno sempre detta parecchio più chiara dei politici degli economisti e dei sociologi.
Un capolavoro che racconta la vita della gente che lavora e che ha sempre fatto fatica, la stessa identica fatica che non è mai cambiata. Forse c’è stato un periodo buono tra il 1950 e il 1970, poi sono arrivati i divieti di fumare (vedi Le vie Le vie del tabacco del tabacco di Francesco Faedis), la Marcia dei Quarantamila della Fiat, fine degli anni Settanta e insomma la speranza del futuro migliore c’è stata solo in quel periodo lì, per i genitori dei boomer che vedevano i loro figli arrivare a una giovinezza di televisori e lavatrici e frullatori e case popolari a riscatto e il resto, ma poi la festa è finita in fretta.
E per le  prospettive di un futuro migliore, non dimentichiamoci che i genitori dei boomer avevano fatto la Seconda Guerra Mondiale, e i loro genitori avevamo fatto la Prima, e via che le prospettive del futuro migliore erano sempre state solo la speranza di portare a casa la pelle.
Sabato sera, domenica mattina è il racconto di un anno di vita di un operaio inglese negli anni Cinquanta. Scopate, sbronze tremende, risse, alla fine delle giornate passate al tornio. Si sente l’odore della fabbrica, l’aria della città quando nelle città c’erano le fabbriche invece di banche e uffici dappertutto e l’inquinamento non era la scemenza delle polveri sottili ma lo smog. Le strade di notte, la pioggia, i marciapiedi. La poesia profonda di esistere e di tirare avanti col cottimo e con la birra e con la voglia di ribellarsi a tutto. Anche al fatto che un po’ alla volta tutti si stanno comprando la televisione.
Viene in mente Dickens, Tempi difficili. C’è la stessa Inghilterra, le stesse case rosse annerite dal fumo delle fabbriche. E sembra di vedere le foto in bianco e nero di Martin Parr, o il film di Terence Davies Voci lontane... sempre presenti.
Volendo fare un confronto con la condizione sociale di oggi si può fare innanzitutto una riflessione sul taylorismo, che è vero che a quei tempi i lavoratori in fabbrica erano considerati né più né meno che parti del macchinario, da  controllare e cronometrare, ma secondo me è anche vero che è meglio essere considerati una macchina ed essere lasciati a lavorare in pace liberi di pensare a quel che si vuole, piuttosto che avere a che fare con un’azienda (i padroni adesso non ci sono più, ci sono i manager) che oltre a sfruttarti ti prende anche per il culo e ti chiama risorsa umana e pretende che lavori con passione e non smetti mai neanche a casa che ti arriva la posta elettronica anche nel telefonino, così ti realizzi nel tuo valore come persona negli obiettivi di produzione e di vendita, e oltretutto qualche volta si pretende anche che sorridi tutto il giorno come succede in America da Wal-Mart o ti mettono i giochi in ufficio, vedi “The Economist” del 18 settembre 2010, pag. 74, da mettersi le mani nei capelli, e per saperne di più  si può fare una ricerca qui.
Poi si può fare un’altra riflessione sulle ultime pagine, quando Arthur Seaton, il protagonista, sta pescando tranquillo e fa dei confronti fra la vita degli uomini e quella dei pesci. Senza dire altro perché non mi va di raccontare come finisce il romanzo. O di metterci dello spoiler, come si dice più trendescamente in questi tempi di vilipendio della lingua. Arthur Seaton vede davanti a sé un futuro delineato con precisione, con sicurezza. Anche se è il futuro del lavoro in fabbrica, di una vita in cui ti guadagni da campare tranquillamente solo per tornare a lavorare tutti lunedì. Allora c’era quest’idea della sicurezza, ma anche il nostro Arthur sa benissimo che è una balla. Poteva cambiare tutto da un momento all’altro, se arrivava un’altra guerra.
La guerra non c’è stata, ma è cambiato tutto lo stesso. (blifil)

A pag. 36 c’è una strada lastricata di ciottoli, ma le strade lastricate si chiamano così perché sono fatte di lastre di pietra e non di ciottoli, a pag. 63 nel pub si gioca con i dardi, ma in italiano i darts la gente li chiama freccette, a pag. 142 c’è un che, in due frasi, del tutto fuori posto, tra pag. 224 e 225 Earwing diventa Earwig, e a pag. 259 c’è un bruttissimo dai invece di dagli. Ma a pag. 252 c’è un bellissimo negro, come si diceva una volta quando non era politicamente scorretto e non si faceva brutta figura se non si diceva nero o di colore. E si poteva dire scemo invece di diversamente intelligente. 
Con la nuova edizione minimum fax ha rivisto la traduzione. Spero che abbia anche corretto gli errori come non è stato fatto per il passaggio di Infinite Jest di David Foster Wallace da Fandango a Einaudi. 




Non c’è niente di più straordinario delle cose vere. (Jerome K. Jerome, Tommy e Compagni)

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