venerdì 28 giugno 2013

Giorgio Falco


Tullio Avoledo, Andrea Bajani, Matteo B. Bianchi, Carmen Covito, Giorgio Falco, Barbara Garlaschelli, Dacia Maraini, Michela Murgia, Giuliana Olivero, Antonio Pascale, Grazia Verasani, Lavoro da morire. (Einaudi)

Come era prevedibile, l’unico pezzo di letteratura di questa antologia è il piccolo capolavoro di Giorgio Falco, Liberazione di una superficie, brevissimo intensissimo ed elegantissimo nelle sue cadenze di luci polveri odori e rumori, in cui un immigrato vagabondo forse se ne poteva stare a casa sua e magari stava anche meglio, ma per qualche motivo se ne è andato in un paese straniero, probabilmente nemmeno lui sa bene perché, nel gorgo di quella indeterminatezza esistenziale che la globalizzazione e la simultaneità fanno scivolare nella vita di tutti. Uno che starebbe bene in un racconto di Raymond Carver o di Charles Bukowski, e che probabilmente se troverà un lavoro fisso, ammesso che lo accetti, non festeggerà come da prescrizione del Sistema mettendosi in casa un gattino, come fa Agata, l’eponima eroina del racconto che chiude la raccolta.
E per l’appunto Giorgio Falco è anche l’unico che fa qualcosa di diverso dal ripetere quello che, su quest’epoca di crisi, troviamo già scritto in tutti i giornali e vediamo e sentiamo sempre alla televisione, cioè aneddotica da quattro soldi e strappalacrime e politically correct. Che volutamente non l’ho messo in italiano per ricordare a tutti che questa particolare forma di cretinismo ci viene dagli USA.
Perché a cominciare, cioè a finire da Agata di Grazia Verasani, tutti i racconti sono colate di patetico buonismo, con le più grandi chiazze di sbrodolo nelle due storie di disabili, che addirittura non basta che questo qui è in carrozzella e sul lavoro lo trattano male e gli fanno gli scherzi, ma lo disturba persino la Digos perché si ferma a parlare con due peruviani sospettati di spacciare e allora dev'essere che spaccia anche lui.
L’antologia viene poi commentata da una postfazione che racconta la sua origine, ma non rileva quella che forse è la caratteristica più vistosa delle storie di questo volume. Cioè l’assoluta mancanza di qualunque tensione esistenziale. Agata per esempio, vuole un lavoro, ma non le viene mai in mente di domandarsi cosa le piacerebbe fare, di cosa le piacerebbe sapere di più, cosa le potrebbe interessare del mondo in cui si trova a vivere. Agata come gli altri.
Mettendo in evidenza che forse nel Villaggio Globale le persone stanno perdendo la tendenza occidentale a muoversi in direzione dei fini interiorizzati di cui parla Marshall McLuhan, tendenza inutile nel villaggio tribale dell’epoca orale, ma la cui assenza nell’epoca dell’oralità secondaria potrebbe portare, almeno per una larga parte dell’umanità, a conseguenze sorprendenti. Perché se una parte di popolazione si mantiene più colta e meno oralizzata e conserva questi fini interiorizzati, per gli altri le cose si possono mettere molto male. Che forse è quello che sta già succedendo, e che forse si può vedere proprio in questi racconti.
Ma la vera perla è il piccolo saggio di Antonio Pascale sulla catastrofe dell’acciaieria Thyssen dove ci si domanda cosa possiamo fare, oltre a gridare, più o meno retoricamente, contro l’ineluttabile, triste spettacolo, e poi si parla dell’intervento dell’associazione “Psicologi per il popolo” che ha nella sua mission (sic) di intervenire in casi di questo genere e se non ho capito male ma spero di aver capito male però è lì a pag. 104 scritto proprio così, ci si auspica, “per trasformare il trauma in dolore, di socializzare con azioni di debriefing (di nuovo sic) che mettono assieme le persone esposte”.
Viene da domandarsi cosa ne potrebbe pensare, del debriefing e degli “Psicologi per il popolo”, qualcuno di quelli che qualcosa oltre a gridare hanno provato a farla, tanti anni fa e non in Italia. (moll)

A pag. 92 nel racconto di Giuliana Olivero c’è il solito quasi peggio che secondo me vuol dire semplicemente uguale, e dispiace molto trovare, nel racconto di Giorgio Falco, a pag. 45 dei invece che degli, riferito a pneumatici.




L’onnipotenza della ricchezza è, in una repubblica democratica, tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico del capitalismo. La repubblica democratica è il miglior involucro politico possibile per il capitalismo; per questo il capitale, dopo essersi impadronito di questo involucro - che è il migliore - fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni né di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo. (Lenin, Stato e rivoluzione)

1 commento:

  1. Una antologia che raccoglie quasi tutto il nulla della nuova letteratura italiana.
    Immagino che solo un addetto ai lavori o un amico dei suddetti, possa sobbarcarsi l'impresa di leggersi cotale crestomazia; oppure ci vuole una buona dose di non ancora intaccata fiducia negli uomini. Suppongo sia questo il caso.

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