domenica 1 settembre 2013

Grazia Deledda


Grazia Deledda, Canne al vento. (Mondadori)

Efix il cavaliere solitario.
Quando mi trovo davanti a un’espressione del genio, mi capita spesso di domandarmi come è stato possibile che a qualcuno  possa essere venuta in mente una cosa simile. Una storia così.
Non ci si faccia ingannare dal titolo. Canne al vento è un romanzo del 1913, quindi non parla di giovinastri che fumano spinelli all’aria aperta.
Anche se un giovinastro c’è, ma è un giovinastro che più che altro è semplicemente un coglione. Non è del tutto colpa sua, ma questo lo si capisce molto avanti nel romanzo, quando ci si rende conto che il povero Giacintino passa la vita ad essere messo di fronte a prove troppo grandi per uno che non ha esperienza di niente, e quindi tutte le volte sbaglia.
Sbaglia quando perde la testa per la prima ragazza che incontra, sbaglia quando la zia perde la testa per lui. Trentacinque anni la zia e vent’anni lui, quasi la differenza d’età tra Julien Sorel e la Renal in Il rosso e il nero, i due francesi s’erano messi subito a scopare mentre i due sardi si limitano a star male, ma anche se Canne al vento arriva 83 anni dopo Il rosso e il nero, la Francia è pur sempre la Francia e la Sardegna è pur sempre la Sardegna, e Grazia Deledda era una donna e Stendhal era un uomo.
Canne al vento è il romanzo delle pietre, dei fiori, del vento. Soprattutto è il romanzo della pelle, dell’odore e del colore della pelle, che trema per la febbre della malaria, che si sporca di farina, che si attacca a una collana di corallo. 
Passioni oscure e inesprimibili, personaggi fortissimi, violenti come in La lettera scarlatta. Ma mentre in Hawthorne c’è la  religiosità trascendente pesante e ferma del cristianesimo puritano, qui c’è un paganesimo dell’immanenza che riempie le notti di spiriti maligni leggeri e beffardi, e la religione è una continua occasione di feste danzanti.
Efix il cavaliere solitario non ha il cavallo, va in giro a piedi, ma non si ferma un momento.
Avanti e indietro tra il poderetto e la casa delle padrone, in giro per il paese, in viaggio.
Forse Efix è un simbolo.
Perché è lui che dà il senso a tutta la storia, è la presenza di Efix che la trasforma, da storia di pettegolezzi di paese, in una storia di inquietudini e di insoddisfazioni subentranti e interconnesse, di realtà incerte, di pretese urlanti rinchiuse in sguardi fermi o sfuggenti ma comunque silenziosi.
E forse il suo viaggio è un’allegoria, il viaggio della ricerca, la ricerca di cosa, il viaggio di un mendicante che passa da una festa pagana a un’altra, con un cieco vero che racconta storie meravigliose e con un cieco finto che poi si mette a vedere.
Come dire, cerchiamo di capire ma possiamo solo scegliere tra il buio e la falsità.
Efix il servo, Efix l’assassino, Efix il pellegrino, Efix che diventa l’epitome dell’amore impossibile.
Efix il sognatore.
Mentre le stagioni cambiano, e si sente sempre la musica della fisarmonica di Zannantuoni. (moll)

Quelli che come noi amano mettere le congiunzioni dopo le virgole, potranno avere la soddisfazione di trovare in Grazia Deledda un’attestazione autorevole di questo vezzo stilistico, vietato a scuola ma secondo me dotato di una sua legittimità. Cioè fino al Seicento i segni di punteggiatura indicavano le pause per riprendere fiato durante la lettura ad alta voce, e anche se oggi la punteggiatura è parte della struttura del periodo, non vedo perché non adoperarla anche per dare un’interruzione al flusso di pensiero generato dalla lettura silenziosa. Che non è l’unica particolarità moderna di questo romanzo, che nella narrazione al passato contiene anche dei bellissimi brevissimi inserti di presente.
A pag. V della prefazione abbiamo un d’Annunzio invece di D’Annunzio, che il d minuscolo da nobile forse se lo trombonizzava lui, ma nel suo cognome non c’è mai stato, a pag. 15 c’è un le raddoppiato.  




Quando in un posto si sta passabilmente, conviene restarci. (Voltaire, Candido)

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