martedì 8 ottobre 2013

Georges Simenon


Georges Simenon, Il presidente. (Adelphi)

Nel procedere dei miei anni verso il momento della morte e nella mia incrollabile certezza di essere dotato di un’anima immortale, mi è capitato di domandarmi che cosa sia l’Inferno, che come dice Dante e come ci ricorda Giorgio Agamben in La Chiesa e il Regno è l’unica istanza che per il cristianesimo non conosce interruzione né fine.
E mi sono risposto che forse l’Inferno si presenta negli ultimi momenti della vita, quando forse si presenta alla coscienza una revisione generale della nostra esistenza, se in questo momento ci si rende conto di aver vissuto per niente, e di avere sbagliato tutto. Quando oramai veramente i giochi sono fatti e non si può più cambiare niente.
Forse l’Inferno, la punizione senza fine, è il grido interiore di disperazione che comincia in quel momento. Se in quel momento si arriva alla coscienza. Ma anche nel momento supremo, forse il non raggiungimento di una completa coscienza di sé può essere, come nel resto della vita, l’unica via di salvezza e di pace.
Il presidente è probabilmente uno dei romanzi più profondi di Simenon.
Racconta degli ultimi giorni di un uomo politico, che ha passato la vita esercitando il potere nella convinzione di avere nelle mani il destino della Francia e in qualche occasione anche una parte dei destini del mondo intero. Un uomo che sa di avere contribuito a fare la storia del proprio paese, e che sa che questa sua convinzione è condivisa da un mondo che ora che egli si è ritirato dalla politica attiva, sta già facendo della sua vita e delle sue imprese oggetto di studi storici.
Ma è un uomo di cui, fin dalle prime pagine, si vede che non ha mai capito niente degli altri e quindi, come si vedrà, nemmeno di sé stesso.
Il presidente non aveva mai preso in considerazione nessuno in quanto essere umano. Ammesso che sia mai riuscito a prendere in considerazione in quanto essere umano almeno sé stesso. Così accade anche che l’unica persona che l’aveva mai preso in considerazione da questo punto di vista, e che si riprometteva di sopravvivergli, muore un giorno prima di lui.
Da qui comincia il riconoscimento, la presa di coscienza del presidente.
In un tumulto di ricordi, la sua vita gli scorre davanti. E come dice Romain Gary in Biglietto scaduto, ci vuole sempre molto tempo per essere informati su sé stessi.
Così alla fine il presidente si accorgerà, poco prima di addormentarsi per l’ultima volta, di avere vissuto un’esistenza di cui non ha saputo niente e non ha capito niente, di cui ha creduto che fosse in un modo mentre invece era completamente e profondamente in un altro modo. Di essere stato una delle tante irrilevanti rotelle dell’ingranaggio generale.
Il presidente ne prende atto e si prepara ad andarsene con serenità. Il presidente non trova l'Inferno, non capisce, nemmeno nei suoi ultimi momenti, che il problema della sua vita non era stato quello di non avere avuto l’importanza politica che credeva. Nemmeno adesso il presidente può capire, perché non aveva mai capito niente degli altri, e quindi anche di sé stesso. E dal vuoto della vita passa semplicemente e serenamente al vuoto della morte.
Come in Tre camere a Manhattan, anche qui tutto è incentrato sul rapporto con l’Altro. Un rapporto falso e distante, vissuto attraverso le prospettive totalmente esteriori della politica. Poi nel finale l’Altro diventa la realtà di persone vive e presenti, presenze ingannatrici ma pur sempre presenze umane. Nei cui confronti il presidente riesce a costruire quella presa di consapevolezza che è la coscienza dell’intenzionalità. Che tuttavia, dopo una vita di chiusura al mondo degli affetti e dell’emozione, non riesce a trasferire nel confronto con sé stesso.
E la tranquillità che precede la morte è solo la serenità della mancanza di consapevolezza. Il vuoto dell’inesistenza della coscienza. Il vuoto della mancanza di quello che Gregory Bateson ha chiamato Apprendimento 3.
Ricordo un’altra volta che Noam Chomsky ha detto in Linguaggio e problemi della conoscenza che è decisamente possibile e anzi assolutamente probabile che si imparerà sempre di più sulla vita dell’uomo e sulla sua personalità dai romanzi che non dalla psicologia scientifica .
Anche senza essere uno psicologo, cioè proprio perché non era uno psicologo, Georges Simenon lo sapeva, che per quel che riguarda la coscienza non siamo tutti uguali.
Ma Simenon è innanzitutto uno scrittore, un grandissimo scrittore, e se ancora una volta ci presenta la possibilità di una riflessione su noi stessi e sul mondo, lo fa con la sua solita grandezza stilistica.
Fin dall’inizio il romanzo ha il ritmo lento della morte. E l’interiorità del protagonista si confronta con l’ambiente dell’esterno, la casa isolata in cui egli si è ritirato con poche persone di servizio, la tempesta violenta alla quale nel finale fa seguito un gelo nebbioso, la mancanza di corrente elettrica e quindi di luce che ritornerà nel finale.
Il difficile contatto con il mondo di fuori, che sembra avvenire solo attraverso la radio e il telefono ma che invece, il presidente lo scoprirà solo alla fine, era tutto lì e tutto in casa sua.
E la luce finale di Il presidente fa venire di nuovo in mente Tre camere a Manhattan.
Platone ci dice che l’anima si reincarna. E non sappiamo mai se sperare che sia vero, o se non sia meglio piantarla lì una volta per tutte. (bamborino)

Non posso non riferire del piacere provato nel trovare il termine grafia invece del solito calligrafia, per definire semplicemente la scrittura di una persona.




Gli anni tra i trentacinque e i sessantacinque girano davanti alla mente passiva come una giostra confusa e inesplicabile. È solo una giostra di cavalli traballanti e sfiatati, verniciati dapprima con colori pastello, poi grigi e marrone scuro, ma la cosa è ugualmente sconvolgente e ti lascia perplesso, il che non succedeva con le giostre dell’infanzia o dell’adolescenza, né tanto meno con i tracciati precisi e dinamici delle montagne russe della nostra gioventù. Quasi sempre noi, uomini e donne, occupiamo questi trent’anni a ritirarci gradatamente dalla vita, una lenta ritirata, dapprima, da un fronte coperto dai mille piaceri e curiosità della giovinezza, a una seconda linea che è molto meno riparata, e là riduciamo tutte le nostre ambizioni a una sola ambizione, tutti i nostri svaghi a un solo svago, tutti i nostri amici a pochissimi, per i quali la nostra presenza è una specie di anestetico; e alla fine, ci rifugiamo in una fortezza solitaria e desolata, che è tutt’altro che forte, dove a volte udiamo l’odioso sibilo delle granate, e a volte lo avvertiamo appena, mentre sediamo ora stanchi, ora spauriti, in attesa della morte. (Francis Scott Fitzgerald, La strega dai capelli rossicci)

1 commento:

  1. Non so perché, ma Simenon non riesco a rendermelo interessante. Interessante (molto più di Simenon) è questo post. Grazie

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