venerdì 28 novembre 2014

James Fogle


James Fogle, Drugstore cowboy. (Elliot)

James Fogle passa in prigione oltre trent’anni e poi - a partire dagli anni ’90 - nessuno sa più che fine ha fatto. Ha scritto solo questo romanzo. Non si capisce quando e se alla fine ci ha guadagnato qualche soldo. Da questo libro Gus Van Sant ci ha fatto un film. I film di Van Sant di solito vale la pena vederli (anche se questo è con Matt Dillon che poverino è quello che è). 

Bob è un drogato che rapina farmacie per procurarsi la droga e arrivare a sera. È il capo di una banda – sveglio, duro, che si fa carico di tutte le responsabilità di essere un capo – dove ci sono la sua donna, un’altra dura, e un ragazzo con la sua ragazza che forse Bob ha preso con sé perché alla fine gli facevano pena, tanto sono spaesati nel mondo dei drogati. E infatti alla fine lei non ce la fa.
Bob e i suoi non vendono la roba: rapinano farmacie come un poveraccio rapinerebbe una panetteria: per nutrire un corpo e una testa che altrimenti non ce la farebbero. Fine. Il resto non importa.  
Il padre di Bob faceva l’operaio in una acciaieria. Forse faceva quel lavoro per pagarsi da bere, o forse beveva per riuscire a sopportare quel lavoro. Bob la vedeva così. Il lavoro duro ti ammazza e l’alcool ti fa rincoglionire. Si erano presi suo padre ma non si sarebbero mai presi lui.
Bob la vede chiara la strada che ha davanti. Dannarsi insieme a una donna tutto il maledetto giorno e passare tutta la sera a tracannare alcool per evitare di scannarsi tra loro il mattino dopo.
Ci deve essere qualcosa d’altro. Rapinare farmacie diventa il suo lavoro. Un lavoro come gli altri. Anche essere drogato è un lavoro. Spesso pensi che alla fine i tossici fanno una bella vita ma Fogle riesce a farti pensare che è un lavoro. Un lavoro fottutamente duro.
Un lavoro, forse come tutti gli altri, che è come un gioco che inizi a giocare sapendo che non puoi vincere. Allora che razza di gioco è? Chi si azzarda a cominciare, sapendo di non poter vincere mai? Be’, un sacco di gente.
Bob va avanti così, e la stanchezza aumenta e in qualsiasi modo metta insieme i pezzi della sua vita il risultato è sempre lo stesso: zero. Non si va da nessuna parte. 
Ci sono persone che hanno sempre bisogno di qualcosa per stare meglio, altrimenti non ce la fanno. Che per natura soffrono così tanto che sono così stanche della vita e del ruolo che svolgono nella società che non ce la fanno mica senza un antidoto, senza un briciolo di sollievo. E ci puoi stare anni a parlare con queste persone e magari riuscirai a tirarle fuori un po’ ma prima o poi loro troveranno qualcos’altro, magari non la droga, ma forse l’alcol, la colla, la benzina o forse soltanto una pallottola dritta in testa o il gas, persino la religione, insomma qualsiasi cosa per alleviare le angosce della vita di tutti i giorni.
Nella storia ci sono un po’ di cose di cui si poteva fare a meno ma la vicenda alla fine importa poco. E finisce quando Bob – che si sente vecchio, di un altro mondo che non c’è più – incontra uno stupido bamboccio della tv, uno stupido bamboccio ingozzato di biscotti a forma di animali e latte freddo con i cereali per tutta la durata della sua fottuta infanzia. E quando al mondo sono rimasti solo questi, forse andarsene non è la peggiore delle cose.
Non è un capolavoro ma è un libro senza fronzoli che va via bene e si legge volentieri. (zarlingo)




Talvolta, la sola sorpresa è che non ce ne sia una. (David Levinson, Lana Turner ha dormito qui)

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