domenica 11 marzo 2012

Virginia Woolf

Virginia Woolf, I racconti. (Baldini&Castoldi)
In Il vestito nuovo Mabel Waring va ad un piccolo ricevimento e si rende conto che il suo vestito nuovo, che per risparmiare si era fatta fare partendo da un vecchio figurino, invece di seguire la moda, il suo vestito nuovo è brutto e anacronistico. Un istante davanti a uno specchio e Mabel si ripiega nell’osservazione di sé stessa, delle persone che ha intorno, della sua vita, delle prove dell’abito con la sarta. Passa attraverso gli oggetti, bottoni, spazzole, passa nelle parole, ascolta, risponde, rivede la propria vita, sua madre, suo marito, le possibilità non diventate possibili, il canarino della sarta, sguardi, colori di occhi e di facce, odori, gesti, la felicità che qualche volta è esplosa in momenti che si staccano nelle ripetizioni del movimento quotidiano. Come un romanzo, il romanzo di tutti, un grumo di istanti del totale immediato della presenza della mente a sé stessa.
O il famosissimo Kew Gardens, dove in un giardino una goccia della pioggia appena finita e i movimenti di una chiocciola incorporano e  scandiscono i corpi i colori e le parole e i gesti dei passanti.
Forse solo uno, La vedova e il pappagallo: una storia vera, è propriamente un racconto. Gli altri sono sublimi espressioni di quello che gli anglofoni chiamano lo sketch. Momenti di esistenza condensati, o dilatati, in un flusso di parola e di pensiero che è la corrente mai ferma della coscienza, della nostra presenza a noi stessi.
In cui la consapevolezza dell’essere si introflette e in questo apparente richiudersi si trascina dentro tutte le possibilità dell’esterno, di quel fuori dove la vita passa e lascia segni che dal fuori tornano dentro. In uno scambio continuo.
Un libro da leggere poco a poco. Da tenere lì a disposizione, anche per anni.
Di tanto in tanto, quando arrivano quei momenti in cui il disagio di tutti i giorni, la sensazione dolorosa e incomprensibile del distacco dagli altri, quel punto dello spirito in cui la solitudine prende una consistenza che diventa quasi fisica, in quei momenti entrare in un racconto di Virginia Woolf può essere un ristoro ineguagliabile.
Non un grande ristoro. Perché il riposo che si trova in questi racconti è comunque un momento di arresto nel chiuso della coscienza, nel silenzio di quella stessa solitudine che è diventata un peso.
Ma fermare un punto dell’ineluttabilità di questa solitudine, sentirla come condizione ineliminabile del proprio esistere, la riporta al suo senso di vita, tutta la vita in quanto tale, tutto quello che alla fine ci rimane, e questo vivere in una interruzione del reale va bene, perché alla fine non abbiamo niente di meglio, non abbiamo niente di meglio di questa vita che ci siamo costruiti un giorno dopo l’altro e in mancanza di meglio, come direbbe Romain Gary, in mancanza di meglio va bene anche un sorriso autoreferenziale.
Quello che conta è saperlo. La coscienza. (moll)
Un caso editoriale più unico che raro. Nel testo compaiono qua e là i numerini che indicano le note, ma le note poi non ci sono da nessuna parte.
L’unica cosa che non abbiamo perduto è la capacità di soffrire. A soffrire siamo bravissimi. Ma si tratta di un dolore muto. Non disturbiamo mai i vicini. Crolliamo, ma lo facciamo in modo molto educato. Siamo fatti così. Siamo sicuramente fatti così. I crollati educati. (Alfred Hayes, Una forma di amore)

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