Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. (Bollati Boringhieri)
Parto dal sospetto di non aver capito niente di questo libro.
Cioè rimango a bocca aperta fino alla slogatura mandibolare leggendo che in quanto consiste unicamente nell’istanza dell’enunciazione, la coscienza ha costitutivamente la forma dell’esser consegnati a un inassumibile.
E non capisco il lavoro dello psichiatra giapponese Kimura Bin, come non capisco gli arzigogoli di Giorgio Manganelli, troppo posteriori al ben più comprensibile Pierre Menard, l’autore del “Chisciotte” di Borges perché la somiglianza non faccia insospettire.
Ma qualcosa a modo mio mi sembra di aver capito, anche se non sono un filosofo professionista.
Quindi tenterò non certo di spiegare il testo ma di utilizzarlo come base di partenza per qualche avvolgimento riflessivo.
Mi sembra che Giorgio Agamben in qualche modo dica che l’unica vera testimonianza possibile e attendibile sull’inferno del lager possa venire dall’internato che è stato ridotto a quella condizione di esistenza subumana o non più umana per cui veniva definito, dagli altri internati, musulmano.
E poi trovo scritto che secondo Giorgio Agamben non la vita né la morte, ma la produzione di una sopravvivenza modulabile e virtualmente infinita costituisce la prestazione decisiva di quello che Michel Foucault ha chiamato il biopotere nel nostro tempo, cioè l’ambizione suprema del biopotere è di produrre in un corpo umano la separazione assoluta del vivente e del parlante, in modo da trasformare e disarticolare il soggetto fino a un punto limite, in cui il nesso tra soggettivazione e desoggettivazione sembra spezzarsi, e si arriva al risultato di una separazione tra l’uomo e il non-uomo, nella stessa persona che a questo punto non è più un individuo, e sopravvive invece di vivere.
Cioè mi sembra di capire che per Giorgio Agamben, nel 1998 e quindi prima, anche se poco prima, dell’esplosione attuale della comunicazione, già prefigurava almeno il senso generale di quello che stava per succedere.
Cioè come già Zygmunt Bauman in Modernità e Olocausto aveva avanzato il sospetto che Auschwitz non fosse che un’estensione del moderno sistema di fabbrica, secondo Giorgio Agamben ad Auschwitz, anche se con altri mezzi, sarebbe stato messo in atto un esperimento di trasformazione della soggettività che forse sta trovando attraverso quel che accade nella nostra epoca il suo completamento.
Con altri mezzi, perché forse in mondi paralleli come Facebook la separazione tra vivente e parlante si ottiene non tanto attraverso un processo di distruzione fisica quanto attraverso un processo di distruzione mentale che consiste in una moltiplicazione delle entità desoggettivate e non-umane, che sopravvivono invece di vivere, e attraverso questa moltiplicazione l’umano vivente cessa di vivere, e sopravvive nel rapporto tra la ripetizione della propria sopravvivenza desoggettivata con altre infinite ripetizioni di sopravvivenze desoggettivate. Quell’azzeramento dell’individuo, che diventa semplicemente un nodo in una rete di rapporti, caratteristico della psicologia cognitivista.
Per spiegarmi meglio, secondo me la nostra pagina Facebook che circola in Rete è un aspetto della sopravvivenza modulabile e virtualmente infinita di cui parla Agamben e può essere considerata un individuo vero e proprio al quale si fanno domande, su cui si possono fare commenti, un alias di un nuovo tipo, che è qualcosa di più di un alias, rispetto al quale certamente non si può parlare di vita, ma di una qualche sopravvivenza si può certo parlare. Sopravvivenza in cui molti di noi sono impegnati più o meno sempre, cioè lungo tutte le giornate dell’eterno presente di cui parla René Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca.
Così mi viene di nuovo in mente Modernità e Olocausto, e azzardo una riflessione sulla burocrazia, o meglio su quello che dice Zygmunt Bauman sull’organizzazione burocratica dell’alienazione e della divisione del lavoro che ha portato ad una distanza sempre più marcata tra il comportamento di ogni individuo e gli effetti di questo comportamento sugli altri, e mi domando se l’organizzazione burocratica non consista essenzialmente nella produzione di intermediari tra un individuo e l’altro, e mi dico che la tecnologia ha aumentato notevolmente il numero di intermediari nelle nostre comunicazioni tra individui. Per esempio un tempo si poteva parlare solo a voce, un individuo di qua e uno di là senza niente in mezzo, poi è arrivato il telefono, un individuo, un telefono, un altro individuo lì direttamente con la sua voce nel telefono, poi è arrivata l’informatica, e qui c’è un intermediario in più, un individuo, un telefono cellulare che manda un sms, un telefono cellulare che lo riceve, l’altro individuo che lo legge. Stessa cosa per la posta, una volta c’erano due persone e una lettera, adesso ci sono due persone e due macchine. Voglio dire che l’intermediazione è più complessa, tanto che il messaggio rimane in sospeso fino a quando non viene letto, nel luogo dell’intermediazione, mentre la telefonata o si fa o non si fa, ed è nella natura della telefonata che, dopo la sua fine, essa non esista più.
Al contrario, le sopravvivenze desoggettivate si fermano nei luoghi dell’intermediazione, e continuano a sopravvivere anche dopo la comunicazione. A differenza della telefonata, che dopo la sua fine non esiste più a meno che non venga registrata, le comunicazioni informatiche sopravvivono, a meno che non vengano cancellate.
Poi Giorgio Agamben dice che la caratteristica della testimonianza del musulmano è di non poter esistere come testimonianza in quanto tale, dall’interno della condizione del musulmano, perché il musulmano non è più in grado di prendere contatto con l’esterno, ma questo silenzio e questa impossibilità di contatto diventano in qualche modo la testimonianza assoluta. Se non ho capito male, perché chi racconta l’esistenza del musulmano offre la testimonianza dell’impossibilità di testimoniare, che in questo caso non è più una carenza, ma diventa la realtà di un silenzio che dice tutto.
Giorgio Agamben citando Émile Benveniste ci ricorda che la coscienza comincia nel linguaggio e nel discorso in cui la parola “io” enuncia il soggetto, e mi domando se in questa moltiplicazione di ripetizioni di entità desoggettivate ed esistenti in cui l’”io” non esiste se non nel rapporto che intrattengono le une con le altre, moltiplicato negli infiniti momenti di arresto e di persistenza nei mezzi di comunicazione, la perdita della soggettività non impedirà al vivente o meglio al sopravvivente di dare testimonianza.
Perché forse, anche prima di entrare nella nebbia delle persistenze comunicazionali, la perdita della possibilità di viversi come soggetti di un discorso, soggetti dotati di una individualità propria, comincia da un’infanzia in cui al proprio nome viene precocemente sostituita la generica parola “amore”, che contribuisce anch’essa a configurare un “io” che esiste solo nella relazione, e non nel personale dell’individualità.
Con l’aiuto seguente della pubblicità, fondamentale mezzo di formazione della cultura del Sistema, che si spinge a dire che siccome sei unico ti diamo una cosa uguale a quella che diamo a tutti, quando non arriva a dire, come nella recente pubblicità di una automobile, che l’individualità ha un prezzo.
E con l’aiuto ulteriore delle elaborazioni e delle descrizioni statistiche della realtà, in cui le individualità si trasformano in numeri e si perdono definitivamente nelle relazioni percentuali.
Ma c’è anche qualcosa, in questo libro, sul rapporto tra discorso e linguaggio, e da quel che dice Giorgio Agamben richiamandosi a Michel Foucault mi è venuto in mente un altro gruppo di musulmani della nostra epoca, capaci di proferire enunciati che sono solo enunciati e non possono più diventare discorso, i sempre più numerosi dementi prodotti dal biopotere, il nuovo tipo di potere che come dice Foucault invece di far morire e lasciar vivere come il potere antico, fa vivere e lascia morire. Il biopotere cura la vita, la cura sia nel senso che se ne occupa e la cura come una malattia dopo aver trasformato in malattie i disagi esistenziali, sia nel senso che la controlla in tutti i suoi momenti, cura la vita in tutti i suoi dettagli e la cura fino al punto di occuparsi indefinitamente anche della morte, trasformando anche questa in sopravvivenza. Raggiungendo un punto di massima visibilità del successo dell’esperimento iniziato ad Auschwitz nella persona del demente, che è separazione assoluta del vivente dal parlante. Un punto per cui mi richiamo ancora a Giorgio Agamben, che cita le osservazioni di Xavier Bichat all’inizio dell’Ottocento
A questo punto ci si può domandare se dall’interno del Sistema in cui ci troviamo a vivere, che dà e mantiene la testimonianza di tutto, è possibile dare testimonianza. Se cioè la testimonianza non sia in questo caso, e il dubbio lo aveva già avanzato Guy Débord in La società dello spettacolo, comunque una parte del Sistema. Una testimonianza che, trovandosi ad essere comunque all’interno del Sistema, non ne può parlare.
In questo caso, il silenzio delle sopravvivenze desoggettivate, che come tali non possono parlare di sé come non possono parlare di quello che hanno intorno, sarebbe un’impossibilità di discorso che si troverebbe a sostituire e costituire il discorso.
Nell’impossibilità di fare un discorso su di sé e su quel che sta accadendo, e di esserne quindi consapevoli. (bamborino)
La verità è il mistero. (Carlos Fuentes, Il prigioniero di Las Lomas)
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